L’importante principio, confermato dal Concilio Ecumenico Vaticano II, secondo cui la preghiera liturgica, adattata alla comprensione del popolo, possa essere capita, ha richiesto il grave compito, affidato ai Vescovi, di introdurre la lingua volgare nella liturgia e di preparare ed approvare le versioni dei libri liturgici.
La Chiesa Latina era consapevole dell’incombente sacrificio della perdita parziale della propria lingua liturgica, adoperata in tutto il mondo nel corso dei secoli, tuttavia aprì volentieri la porta a che le versioni, quali parte dei riti stessi, divenissero voce della Chiesa che celebra i divini misteri, insieme alla lingua latina.
Allo stesso tempo, specialmente a seguito delle varie opinioni chiaramente espresse dai Padri Conciliari relativamente all’uso della lingua volgare nella liturgia, la Chiesa era consapevole delle difficoltà che in questa materia potevano presentarsi. Da una parte, bisognava unire il bene dei fedeli di qualunque età e cultura ed il loro diritto ad una conscia ed attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche con l’unità sostanziale del Rito Romano; dall’altra, le stesse lingue volgari spesso solo in maniera progressiva sarebbero potute divenire lingue liturgiche, splendenti non diversamente dal latino liturgico per l’eleganza dello stile e la gravità dei concetti al fine di alimentare la fede.
A ciò mirarono alcune Leggi liturgiche, Istruzioni, Lettere circolari, indicazioni e conferme dei libri liturgici nelle lingue vernacole emesse dalla Sede Apostolica già dai tempi del Concilio, e ciò sia prima che dopo le leggi stabilite nel Codice di Diritto Canonico. I criteri indicati sono stati e restano in linea generale utili e, per quanto è possibile, dovranno essere seguiti dalle Commissioni liturgiche come strumenti adatti affinché, nella grande varietà di lingue, la comunità liturgica possa arrivare ad uno stile espressivo adatto e congruente alle singole parti, mantenendo l’integrità e l’accurata fedeltà, specialmente nel tradurre alcuni testi di maggiore importanza in ciascun libro liturgico.
Il testo liturgico, in quanto segno rituale, è mezzo di comunicazione orale. Ma per i credenti che celebrano i sacri riti, anche la parola è un mistero: quando infatti vengono proferite le parole, in particolare quando si legge la Sacra Scrittura, Dio parla agli uomini, Cristo stesso nel Vangelo parla al suo popolo che, da sé o per mezzo del celebrante, con la preghiera risponde al Signore nello Spirito Santo.
Fine delle traduzioni dei testi liturgici e dei testi biblici, per la liturgia della parola, è annunciare ai fedeli la parola di salvezza in obbedienza alla fede ed esprimere la preghiera della Chiesa al Signore. A tale scopo bisogna fedelmente comunicare ad un determinato popolo, tramite la sua propria lingua, ciò che la Chiesa ha inteso comunicare ad un altro per mezzo della lingua latina. Sebbene la fedeltà non sempre possa essere giudicata da parole singole ma debba esserlo nel contesto di tutto l’atto della comunicazione e secondo il proprio genere letterario, tuttavia alcuni termini peculiari vanno considerati anche nel contesto dell’integra fede cattolica, poiché ogni traduzione dei testi liturgici deve essere congruente con la sana dottrina.
Non ci si deve stupire che, nel corso di questo lungo percorso di lavoro, siano sorte delle difficoltà tra le Conferenze Episcopali e la Sede Apostolica. Affinché le decisioni del Concilio circa l’uso delle lingue volgari nella liturgia possano valere anche nei tempi futuri, è oltremodo necessaria una costante collaborazione piena di fiducia reciproca, vigile e creativa, tra le Conferenze Episcopali e il Dicastero della Sede Apostolica che esercita il compito di promuovere la sacra Liturgia, cioè la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. Perciò, affinché continui il rinnovamento dell’intera vita liturgica, è sembrato opportuno che alcuni principi trasmessi fin dal tempo del Concilio siano più chiaramente riaffermati e messi in pratica.
Si deve senz’altro prestare attenzione all’utilità e al bene dei fedeli, né bisogna dimenticare il diritto e l’onere delle Conferenze Episcopali che, insieme con le Conferenze Episcopali di regioni aventi la medesima lingua e con la Sede Apostolica, devono far sì e stabilire che, salvaguardata l’indole di ciascuna lingua, sia reso pienamente e fedelmente il senso del testo originale e che i libri liturgici tradotti, anche dopo gli adattamenti, sempre rifulgano per l’unità del Rito Romano.
Per rendere più facile e fruttuosa la collaborazione tra la Sede Apostolica e le Conferenze Episcopali in questo servizio da prestare ai fedeli, ascoltato il parere della Commissione di Vescovi e Periti da me istituita, dispongo, con l’autorità affidatami, che la disciplina canonica attualmente vigente nel can. 838 del C.I.C. sia resa più chiara, affinché, secondo quanto espresso nella Costituzione Sacrosanctum Concilium, in particolare agli articoli 36 §§ 3. 4, 40 e 63, e nella Lettera Apostolica Motu Proprio Sacram Liturgiam, n. IX, appaia meglio la competenza della Sede Apostolica circa le traduzioni dei libri liturgici e gli adattamenti più profondi, tra i quali possono annoverarsi anche eventuali nuovi testi da inserire in essi, stabiliti e approvati dalle Conferenze Episcopali.
In tal senso, in futuro il can. 838 andrà letto come segue:
Can. 838 - § 1. Regolare la sacra liturgia dipende unicamente dall’autorità della Chiesa: ciò compete propriamente alla Sede Apostolica e, a norma del diritto, al Vescovo diocesano.
§ 2. È di competenza della Sede Apostolica ordinare la sacra liturgia della Chiesa universale, pubblicare i libri liturgici, rivedere1gli adattamenti approvati a norma del diritto dalla Conferenza Episcopale, nonché vigilare perché le norme liturgiche siano osservate ovunque fedelmente.
§ 3. Spetta alle Conferenze Episcopali preparare fedelmente le versioni dei libri liturgici nelle lingue correnti, adattate convenientemente entro i limiti definiti, approvarle e pubblicare i libri liturgici, per le regioni di loro pertinenza, dopo la conferma della Sede Apostolica.
§ 4. Al Vescovo diocesano nella Chiesa a lui affidata spetta, entro i limiti della sua competenza, dare norme in materia liturgica, alle quali tutti sono tenuti.
In maniera conseguente sono da interpretare sia l’art. 64 § 3 della Costituzione Apostolica Pastor Bonus sia le altre leggi, in particolare quelle contenute nei libri liturgici, circa le loro versioni. Parimenti dispongo che la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti modifichi il proprio “Regolamento” in base alla nuova disciplina e aiuti le Conferenze Episcopali ad espletare il loro compito e si adoperi per promuovere sempre di più la vita liturgica della Chiesa Latina.
Quanto deliberato con questa Lettera apostolica in forma di “motu proprio”, ordino che abbia fermo e stabile vigore, nonostante qualsiasi cosa contraria anche se degna di speciale menzione, e che sia promulgato tramite pubblicazione su L’Osservatore Romano, entrando in vigore il 1° ottobre 2017, quindi pubblicato sugli Acta Apostolicae Sedis.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 3 settembre 2017, quinto del mio Pontificato.
FRANCISCUS PP.
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1 Nella versione italiana del C.I.C., comunemente in uso, il verbo “recognoscere” è tradotto “autorizzare”, ma la Nota esplicativa del Pontificio Consiglio per l’Interpretazione dei Testi Legislativi ha precisato che la recognitio “non è una generica o sommaria approvazione e tantomeno una semplice “autorizzazione”. Si tratta, invece, di un esame o revisione attenta e dettagliata…” (28 aprile 2006).
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